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Il naufragio dei cinque referendum abrogativi del 2025, quattro sul lavoro e uno sulla cittadinanza, non è solo una sconfitta dei promotori. È il sintomo di una malattia più profonda: una crisi strutturale della partecipazione democratica. L'affluenza si è fermata sotto il 30%, ben lontana dal quorum del 50%+1 necessario a rendere validi i quesiti. Non si è trattato di un errore di comunicazione o di una battaglia mal condotta: si è palesata, ancora una volta, la disaffezione crescente dei cittadini verso le urne, specialmente quando si tratta di democrazia diretta.
Il paradosso è che la politica c’era, eccome. I partiti hanno politicizzato lo scontro sin dall’inizio, trasformando il referendum da strumento popolare a campo di battaglia tra schieramenti. Da un lato, i promotori – CGIL, Partito Democratico, Alleanza Verdi-Sinistra, +Europa, hanno usato i quesiti come occasione per lanciare una sfida simbolica al governo Meloni. Dall’altro, il centrodestra ha scelto la strategia opposta: il silenzio, il boicottaggio, l’ironia post-voto. Il risultato? Un confronto inquinato da secondi fini, dove l’obiettivo non era tanto abrogare norme impopolari, quanto testare la tenuta delle coalizioni e provare a orientare l’agenda pubblica. Ma la gente lo ha capito. E ha girato le spalle.
Mentre cala il sipario sul referendum, resta aperta una questione scomoda: quanto ci è costata questa consultazione? Secondo i dati ufficiali, la macchina referendaria ha richiesto oltre 88 milioni di euro:
63,8 milioni per le sezioni elettorali ordinarie
276mila euro per i seggi speciali
Quasi 24 milioni per inviare le schede agli italiani all’estero (la maggior parte delle quali non è mai tornata, o è tornata bianca)
Un investimento enorme – e legittimo, in linea di principio – che però solleva interrogativi quando diventa spesa a vuoto. Lo stesso ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha proposto di modificare la legge sui referendum, suggerendo l’ipotesi di innalzare il numero di firme necessarie e rivedere le modalità di voto per gli italiani all’estero. Il timore, nemmeno troppo velato, è che la democrazia diretta sia diventata un giocattolo politico costoso, spesso utilizzato per mandare segnali piuttosto che per cambiare davvero le leggi.
Attenzione però: il mancato raggiungimento del quorum non equivale necessariamente a disinteresse. Semmai, è il sintomo di una sfiducia generalizzata verso l'efficacia dello strumento referendario. Lo dimostra il dato sul referendum sulla cittadinanza, dove oltre 5 milioni di elettori sono andati a votare per dire “No” alla proposta, pur potendo semplicemente astenersi. Un segnale forte, ideologico, che ha colto di sorpresa gli stessi promotori. Ma anche gli altri quesiti, pur segnati da un largo consenso tra i votanti (tra l’86% e l’88% di “Sì”), hanno visto un numero troppo esiguo di partecipanti per incidere realmente.
Il punto è che il referendum non è più percepito come uno strumento utile. In un’epoca in cui le decisioni politiche sembrano sempre più autoreferenziali, la partecipazione viene vista come un atto sterile. Non aiuta il fatto che, spesso, i referendum vengano indetti su temi tecnici, mal spiegati, caricati di simbolismi, privati della loro funzione originaria: far decidere i cittadini, non le segreterie dei partiti.
A ciò si aggiunge un elemento culturale: la cittadinanza come diritto o come privilegio? La discussione sul quinto quesito ha fatto emergere una profonda spaccatura nell’opinione pubblica. La proposta di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza regolare per richiedere la cittadinanza ha generato un dibattito acceso, soprattutto sui social, ma non ha prodotto partecipazione concreta. Anche qui, si è preferito contestare il principio, più che discutere il merito.
I referendum del 2025 non sono stati solo un fallimento tecnico. Sono stati uno specchio. Un riflesso della fragilità del nostro sistema democratico, della disconnessione tra cittadini e istituzioni, della strumentalizzazione crescente degli strumenti di partecipazione. Se non si affronta seriamente questa deriva – attraverso una riforma della legge referendaria, un investimento sulla cultura civica, e un ridisegno del rapporto tra politica e società – il rischio è che anche la prossima consultazione finisca allo stesso modo: nel silenzio delle urne, con milioni di euro spesi per niente.
Gaetano Mellia
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Negli ultimi giorni, mi è capitato più volte di entrare in alcune tabaccherie. Lì, in coda, ho osservato una scena che ormai sembra normale, ma che dovrebbe farci riflettere. Tra schedine, gratta e vinci e schermi luminosi, c’erano giovani, certo. Ma soprattutto anziani. Volti segnati dal tempo, mani tremanti che stringevano quei pezzi di carta come se contenessero una promessa. Una speranza. Un colpo di fortuna che, forse, avrebbe potuto cambiare qualcosa.
Due storie, una del passato e una del presente, raccontano ciò che troppo spesso non si dice.
Marco, giovane lavoratore, ha iniziato per gioco. Una scommessa ogni tanto, un biglietto la domenica, una slot durante la pausa. “È solo per divertirmi”, ripeteva. Finché non ha vinto. Non una fortuna, ma abbastanza da credere che fosse solo l’inizio.
All’inizio sembrava tutto sotto controllo. Poi il gioco ha iniziato a prendere spazio: prima nelle sue giornate, poi nei suoi pensieri, poi nella sua vita. Marco ha iniziato a nascondersi, a mentire, a spendere soldi che non aveva. Non cercava più la vittoria, ma un anestetico al vuoto che sentiva dentro.
Ha perso tanto: denaro, lavoro, fiducia. Ma soprattutto la serenità di guardarsi allo specchio senza vergogna. Le notti insonni, l’ansia, il panico. Ogni promessa di smettere durava poche ore. Finché non ha parlato. Prima con un amico, poi con un professionista. Da lì è iniziato il percorso. Faticoso. Imperfetto. Ma reale. E possibile.
Giuseppe, invece, ha 74 anni. Una vita di lavoro alle spalle, una pensione che basta appena e giornate vuote da riempire. Da quando è rimasto vedovo, la solitudine è diventata più pesante. Così ha iniziato a passare i pomeriggi in un bar vicino casa. Prima per un caffè, poi per tentare la fortuna con qualche euro.
“All’inizio era solo per passare il tempo. Almeno lì c’era qualcuno con cui scambiare due parole. Quelle macchinette luminose facevano sembrare tutto un po’ meno grigio.”
Ma euro dopo euro, settimana dopo settimana, la pensione cominciava a svanire troppo in fretta. Giuseppe inventava scuse: bollette alte, regali ai nipoti, piccoli imprevisti. La verità era un’altra. Il gioco era diventato il suo rifugio. Una distrazione. Un’illusione.
Il momento di svolta è arrivato quando si è trovato a dover scegliere se pagare l’affitto o tentare ancora una volta il colpo buono. Quel giorno ha pianto. Si è sentito piccolo. Ma ha trovato il coraggio di parlare con il suo medico.
Da lì, ha iniziato il cammino. Con l’aiuto dei servizi territoriali, dei figli, e del centro anziani, ha scoperto nuove passioni e nuovi amici. Ha capito che chiedere aiuto non è un fallimento. È un atto di forza.
Tanti anziani come Giuseppe vivono questo dramma in silenzio. Poche parole, tanto dolore nascosto. E una pensione che evapora nel sogno di un cambiamento che non arriva mai. Il gioco d’azzardo è una dipendenza subdola: non lascia lividi, ma scava dentro, lentamente. E porta via tutto.
È tempo di parlarne. Di ascoltare. Di tendere la mano. Perché nessuno dovrebbe affrontare tutto questo da solo.
Gaetano Mellia
I servizi dell'ASP di Enna
Area sud della provincia (Enna,Catenanuova, Piazza Armerina, Valguarnera,Barrafranca, Aidone) e Area Nord (Assoro, Capizzi, Nicosia, Regalbuto, Troina)
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L’elezione di Papa Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost, ha segnato un nuovo inizio per la Chiesa cattolica, nel segno della semplicità, della serenità e dell’unità. Un Conclave breve ma intenso, che ha visto 133 cardinali elettori riuniti sotto gli affreschi della Cappella Sistina, sospinti – come più volte ricordato – dall’azione dello Spirito Santo. Il volto scelto per guidare il popolo di Dio è quello di un missionario dal cuore agostiniano, con alle spalle una lunga esperienza pastorale e di governo. Un uomo mite e riservato, ma capace di decisione e chiarezza: doti rare, ma oggi quanto mai necessarie.
Tre figure cardine del collegio cardinalizio – Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme; Pietro Parolin, già Segretario di Stato vaticano; Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della CEI – hanno offerto in questi giorni uno sguardo complementare e profondo sull’evento ecclesiale appena vissuto, confermando che la scelta di Leone XIV è apparsa a molti come un dono provvidenziale.
Per il cardinale Pizzaballa, la nuova guida della Chiesa porta con sé una testimonianza forte: «La sua è una figura che ispira fiducia. È un uomo che ha vissuto l’annuncio tra le povertà, che sa ascoltare, ma sa anche parlare con chiarezza». Lo ha colpito soprattutto il messaggio del nuovo Papa sulla necessità di “sparire perché rimanga Cristo”: «Una Chiesa non autoreferenziale, capace di evangelizzare, è ciò di cui oggi abbiamo bisogno». Parole che risuonano ancora più forti se lette alla luce del dramma che Pizzaballa vive quotidianamente come pastore in Terra Santa, dove la sofferenza della popolazione di Gaza continua ad interpellare le coscienze: «Il Papa ha parlato subito di pace disarmata. È un richiamo forte per il nostro tempo».
Il cardinale Parolin, che ha servito per oltre un decennio al fianco di Papa Francesco, ha sottolineato con commozione l’atmosfera spirituale del Conclave e la prontezza con cui il nuovo Papa ha accolto la chiamata: «Un lungo applauso ha seguito il suo “accetto” – ha scritto – e in quel momento ho visto sul suo volto una serenità che mi ha profondamente colpito. Una serenità che non è ingenuità, ma consapevolezza piena della missione». Parolin ha ricordato anche l’esperienza condivisa con Prevost nei mesi recenti alla guida del Dicastero per i Vescovi, elogiandone l’equilibrio, la preparazione e l’amore per la Chiesa.
Il cardinale Matteo Zuppi, da parte sua, ha posto l’accento sull’universalità e sull’apertura del nuovo pontificato. In un’intervista, ha evidenziato come Leone XIV incarni «una Chiesa che ascolta, che si fa prossima, che non ha paura della complessità del mondo». Per Zuppi, la figura del nuovo Papa si inserisce nel solco tracciato da Francesco, ma con uno stile personale e sobrio: «Non c’è nulla di costruito o di calcolato in lui. La sua forza è nella sua autenticità. E questo, oggi, è il primo linguaggio della fede».
Dalle parole dei tre cardinali emerge dunque un quadro coerente e incoraggiante: Papa Leone XIV è un uomo di fede salda e di visione pastorale concreta, capace di interpretare le urgenze del presente senza perdere di vista l’essenziale. La centralità di Cristo, il servizio silenzioso, l’ascolto delle periferie esistenziali e geografiche, la pace come priorità: sono i pilastri di un pontificato che si apre con speranza, ma anche con la consapevolezza delle sfide da affrontare.
In un tempo segnato da fratture sociali, guerre e crisi spirituali, la Chiesa ha scelto un pastore “secondo il cuore di Dio”, come ha detto Parolin. E se davvero – come suggerisce Pizzaballa – il compito della Chiesa è oggi quello di far spazio a Cristo nel mondo, Leone XIV sembra già aver indicato la strada, con lo stile umile e forte del servitore che non cerca di imporsi, ma di accompagnare.
Gaetano Mellia
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Archiviato il voto per il rinnovo degli organi della Provincia di Enna, è il momento di andare oltre i numeri e leggere politicamente ciò che sta accadendo. La fotografia che emerge è nitida, impietosa e inequivocabile: il centrodestra è una galassia frantumata, incapace di elaborare una sintesi politica e sempre più irrilevante. E sebbene nel centrosinistra la situazione sembri meno caotica, anche lì le contraddizioni non mancano. Il caso che tiene ancora banco ed è il più emblematico resta quello di Forza Italia ennese.
L’On. Luisa Lantieri, finita al centro di una polemica interna alla coalizione per la sconfitta del candidato presidente Rosario Colianni, ha replicato con parole che meriterebbero maggiore attenzione e meno ipocrisia: "Se i voti sono mancati, ogni partito dovrebbe fare un onesto mea culpa". Forse la vice presidente dell'ARS ha ragione, perchè pensare che una singola segreteria provinciale possa determinare uno scarto di oltre 17 mila voti è non solo ingenuo, ma poco rispettoso per chi conosce i meccanismi politici. I numeri dicono: 58.858 voti ponderati per Capizzi contro 41.572 per Colianni. Un distacco netto di 17.286 voti, pari al 17,2%.
Il motivo vero probabilmente è che da oltre vent’anni il centrodestra ennese è incapace di strutturarsi. Assente nei territori, privo di una classe dirigente coesa, ostaggio di piccoli potentati locali slegati dai bisogni della provincia, continua a perdere terreno davanti a un centrosinistra che, sebbene non immune da problemi, ha almeno il merito di presentarsi con una proposta riconoscibile, che tenta di coinvolgere tutti gli altri partiti, Forza Italia e DC in testa e lavora su temi concreti: università, policlinico, ambiente. Con una leadership chiara, capace di federare anime diverse, e un Partito Democratico che, con tutte le sue contraddizioni, resta il più strutturato e radicato. Eppure, anche nel PD il successo rischia di essere fuorviante.
Vincere non basta, bisogna anche capire come si vince ed il PD dovrà fare una profonda valutazione sul risultato di Enna Città, dove si pone fin d’ora la necessità di stabilire i giusti equilibri. Se l’intero fronte delle ‘opposizioni ha tenuto rispetto alla candidatura del Presidente, la stessa cosa non si può dire della candidatura al Consiglio impersonata da Salvatore Cappa “Salvato” dai quattro voti dei centristi, che hanno tamponato la diversa scelta delle altre forze di opposizione e soprattutto di metà del gruppo consiliare PD; una logica di indubbia scuola democristiana, che proietta il gruppo che ha votato Cappa, se non proprio come forza trainante della futura coalizione, certamente come interlocutore privilegiato, tanto più che nulla esiste a sinistra del PD e che quindi l’unico riferimento non può che andare verso il centro.
Un Pd che dovrà sforzarsi di ritrovare unità e comunque di interpretare la diversità in modo da condurre una sinergica azione politica. Le elezioni di domenica fanno emergere i soliti contrasti, le solite guerre interne, quelle che hanno fatto perdere il centro sinistra in modo sistematico. Affossare il candidato del PD ennese mirava ad un rimescolamento del governo PD ad Enna, tentativo fallito fin dalla mancata candidatura di Tiziana Arena, esposta e non adeguatamente difesa da chi l’aveva proposta con questo intento.
Oggi è il momento di iniziare un nuovo percorso che se vorrà essere vincente dovrà essere tale da coinvolgere tutti gli attori della futura alleanza, senza diktat e senza colpi di mano. In questo scenario, appare chiaro che la politica locale ha bisogno di una svolta.
Il centrodestra, se vuole tornare competitivo, deve chiudere la stagione del civismo improvvisato e costruire una proposta politica strutturata, con liste di partito vere, programmi condivisi e un federatore credibile. Basta con il pendolarismo tra Palermo e Roma: si riparta dai consiglieri comunali, dai corpi intermedi, da chi vive davvero il territorio. Il centrosinistra, dal canto suo, non può sedersi sugli allori. Vincere non basta, bisogna capire perché si vince e soprattutto come evitare che le solite fratture interne diventino il pretesto per nuove sconfitte. Il PD in provincia di Enna non può contare su alleati di spessore elettorale; M5S e cespugli vari garantiscono poco, molto poco. La sfida che si apre adesso non è solo quella di amministrare, ma di costruire una politica nuova. Una politica fatta di visione, responsabilità e radicamento. Serve coraggio. Ma soprattutto, serve verità.
Massimo Castagna
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Completata la riapertura integrale dello svincolo autostradale di Enna sulla A19 “Palermo-Catania”, infrastruttura strategica per la mobilità dell’entroterra siciliano. Dopo mesi di lavori, da oggi tornano percorribili anche le rampe in direzione Palermo, mentre quelle verso Catania erano già state restituite al traffico lo scorso Ferragosto.
Alla cerimonia di riconsegna sono intervenuti il presidente della Regione Siciliana e commissario straordinario per gli interventi sull’A19 Renato Schifani, l’amministratore delegato di Anas Claudio Andrea Gemme e diverse autorità locali e regionali.
L’intervento ha interessato due rampe in viadotto per un totale di 45 campate, due tronchi in rilevato e il viadotto “Euno”, che collega lo svincolo con la strada statale 117 bis. Le attività hanno previsto la demolizione e ricostruzione di cinque campate del sovrappasso con l’installazione di nuovi impalcati in acciaio, mentre le restanti sono state oggetto di consolidamento strutturale e adeguamento sismico.
Sebbene l’opera sia stata riaperta al traffico nella sua interezza, restano da completare alcune finiture minori, come l’installazione dei giunti di dilatazione e la posa della pavimentazione drenante. Questi interventi verranno eseguiti in orario notturno per non interferire con la circolazione. Previsti entro l’anno anche ulteriori lavori di risanamento alle sottostrutture, senza impatti sulla viabilità.
Il progetto ha comportato un investimento di circa 24 milioni di euro.
Ma non si capisce proprio cosa ci sia da festeggiare e da inaugurare, Presidente Schifani, dopo due anni e mezzo di chiusura delle rampe di accesso. Un sacco di soldi, circa 10 volte in più del preventivato. Due anni e mezzo dove l'Anas ha subito pressioni da più parti per accorciare i tempi. Disagi grossissimi per gli automobilisti, costretti ad uscire a Mulinello per chi arrivava da Catania e a Ferrarelle o Caltanissetta per chi arrivava da Palermo.
Questa doveva essere una apertura che doveva avvenire in silenzio, perchè lo svincolo di Enna è stato una delle tante vergogne siciliane.
Massimo Castagna
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