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- Categoria: Archeologia e Culture Antiche
Archeologia e Culture Antiche - Le indagini archeologiche nella provincia di Enna. Intervista a Enrico Giannitrapani
di Claudia Cacciato
Abbiamo intervistato per la rubrica di “Archeologia e culture antiche” l’archeologo Enrico Giannitrapani, co-fondatore della società “Arkeos. Servizi integrati per i Beni Culturali”, che negli ultimi 15 anni si è occupato, insieme ad altri professionisti, delle indagini archeologiche nel territorio dell’ex provincia di Enna portando alla luce nuovi importanti siti, rileggendo le vecchie scoperte alla luce delle nuove conoscenze, gettando luce su una lunga fase della preistoria e della storia della Sicilia centrale e ponendo le basi per futuri promettenti studi sull’archeologia siciliana, oltre a porre l’attenzione sulla necessità della valorizzazione del nostro patrimonio.
C: Enrico, il tuo lavoro di ricerca nel territorio più interno della Sicilia, negli Erei, un’area fino a poco tempo fa quasi inesplorata e quindi poco conosciuta, ad eccezione che per i siti principali quali Villa del Casale, Morgantina ecc. parte da lontano, nel tempo e nello spazio. Tu infatti non sei nato qui.
E: No, in effetti sono siciliano solo per metà, trapanese per parte di padre e toscano da parte materna. Ho studiato e mi sono formato come archeologo presso l’Università di Genova, ho completato i miei studi nel Regno Unito e dopo aver migliorato le mie competenze in missioni archeologiche in varie regioni italiane e all’estero ho iniziato a interessarmi della Sicilia, partecipando a gruppi di ricerca insieme a illustri studiosi come i compianti Sebastiano Tusa, Maurizio Tosi e Mark Pluciennik. Anche grazie a loro ho sviluppato il mio interesse per l’archeologia preistorica e per quella che viene definita “Archeologia dei paesaggi”, ovvero quell’ambito di ricerca che mira a ricostruire attraverso indagini ad ampio spettro l’aspetto che un dato luogo poteva avere nell’antichità e come questo si modifichi nel tempo. Oggi lavoro insieme a diversi validi colleghi come archeologo professionista, portando avanti la sfida di vedere pienamente riconosciuti i diritti dei lavoratori del settore dei beni culturali che ancora mancano di molte tutele a norma di legge in qualità di Presidente di CIA (Confederezione Italiana Archeologi) Sicilia. Il mio lavoro si svolge in collaborazione con le Soprintendenze per i Beni Culturali e con vari enti locali e, dopo una parentesi da docente universitario, continuo a condurre le mie ricerche da libero professionista.
C: Il vostro lavoro, tuo e dei tuoi colleghi, si pone in continuità con le ricerche compiute nel secolo scorso da Paolo Orsi e Luigi Bernabò-Brea – padri dell’archeologia siciliana, anche se siciliani non erano – e portate avanti in seguito dalle Soprintendenze che si sono alternate alla tutela di questo territorio. Ci racconti qualcosa di quanto era già noto e di come avete operato voi per individuare nuovi siti e insediamenti?
E: Quando insieme a mia moglie Francesca Valbruzzi, funzionario della Soprintendenza, ci siamo trasferiti a Enna, abbiamo iniziato a studiare le relazioni sugli scavi e le esplorazioni di Paolo Orsi, Luigi Bernabò Brea e degli archeologi della Soprintendenza di Siracusa e di Agrigento, alle cui competenze afferiva in passato la provincia di Enna. A Francesca venne affidato proprio il compito della catalogazione dei siti noti all’epoca e questo ha offerto l’opportunità di conoscere approfonditamente lo stato degli studi compiuti. Contemporaneamente, insieme a Mark Pluciennik, abbiamo iniziato a esplorare metodicamente il territorio al fine di raccogliere una consistente banca dati di informazioni preziosissima per dare inizio alle ricerche. Abbiamo ripreso in esame gli insediamenti noti, come quelli di Cozzo Matrice nei pressi del Lago di Pergusa, o come Realmese e Malpasso, siti molto importanti del territorio di Calascibetta.
Dal 1996 e per otto anni circa abbiamo percorso campo per campo il territorio ennese, studiandone la morfologia, i materiali rinvenuti in superficie e facendo indagini specifiche sul suolo. Tutto ciò ci ha condotto alla scoperta di numerosi insediamenti fino ad allora sconosciuti.
Abbiamo così realizzato un banca dati di informazioni molto consistente che ha dato in seguito il via a una fase di indagini più puntuali, di tipo stratigrafico. Francesca Valbruzzi ha avuto l’incarico di redigere il Piano Paesaggistico per quanto riguarda l’archeologia della provincia di Enna e ciò ha permesso di conoscere meglio il territorio. Come risultato si è realizzata la perimetrazione di circa 450 “zone di interesse archeologico”, così come sono definite dal codice dei Beni Culturali. Purtroppo nonostante sia stato completato il lavoro, manca – unico caso tra le province siciliane – l’approvazione del Piano Paesaggistico, attualmente bloccato per motivi burocratici. E ciò costituisce un grave danno sia per la valorizzazione che per la tutela dei siti stessi, esposti al pericolo di edificazione illogica e potenzialmente dannosa. Comunque, tali ricerche hanno condotto a individuare numerosi insediamenti o tracce di popolamento di età preistorica e classica nell’area compresa tra Enna, Pietraperzia, Barrafranca, Piazza Armerina, Aidone, Villarosa. Contemporaneamente con Francesca abbiamo ripreso in esame le conoscenze sulla parte nord della provincia, da sempre un po’ ai margini della ricerca: Cerami, Nicosia, Sperlinga e Troina, in parte studiate dalle missioni degli anni ’90 dell’Università di Cambridge, ma di cui ancora molto era sconosciuto. Abbiamo studiato le formazioni rocciose della zona, molto favorevoli all’escavazione e che per questo si prestavano bene all’abitazione in grotta nell’epoca medievale.
Naturalmente è stato necessario, come sempre si fa in archeologia, incrociare i dati ricavati dallo studio del terreno e dalle prospezioni geofisiche con l’esame dei documenti d’archivio e delle fonti storiche conosciute. A guidarci in questo processo è stato il concetto di “archeologia globale”, ormai molto praticato in Italia ma che in Sicilia siamo stati tra i primi a praticare, che concepisce lo studio dell’evoluzione del paesaggio come un continuum ininterrotto dalle fasi più antiche del popolamento ai mutamenti più recenti apportati dall’uomo; un approccio multidisciplinare e multifunzionale che non privilegia lo studio di una precisa civiltà o epoca, che non va alla ricerca di singole evidenze, ma affronta lo studio del paesaggio nella sua peculiare complessità. Tutto dunque è archeologia, dagli strumenti in selce del paleolitico superiore rinvenuti in Contrada Ramata fino ai mulini ad acqua sparsi per la provincia e utilizzati fino a pochi decenni fa: è importante insomma comprendere come l’ambiente ha condizionato l’evoluzione umana e come questa a sua volta ha modificato l’ambiente.
Questo approccio, ad esempio, ci ha consentito di individuare diversi siti lungo il corso del torrente Torcicoda che erano conosciuti soltanto agli addetti ai lavori in seguito a interventi di emergenza per far fronte a scavi clandestini, ma di cui si conosceva davvero molto poco. Come per i siti di Monte Carrangiaro Cozzo Iuculia e Cozzo Matrice – quest’ultimo già scavato da Bernabò Brea negli anni ’50 – nei pressi del lago di Pergusa. Dalle nostre indagini è emersa una realtà molto più complessa di quella già nota. Siamo riusciti a realizzare grazie a queste ricerche una Carta Acheologica del territorio ennese che comprende circa 25 siti di età compresa tra la preistoria e il medioevo e una trentina di insediamenti che attraversano l’età moderna; siti che si dispongono lungo questa piccola ma importante valle fluviale del torrente Torcicoda che confluisce nel fiume Salso – l’antico Imera meridionale – in territorio nisseno, e che dalla preistoria all’età moderna hanno avuto un ruolo economico e culturale piuttosto rilevante.
Gli esiti di queste indagini sono stati pubblicati in varie sedi e abbiamo scelto inoltre di condividerle tramite un progetto internazionale di Open data promosso dall’Università di Pisa (progetto Mappa).
Hanno avuto inizio così le esplorazioni nei siti di Case Bastione a Villarosa e di Tornambè a Pietraperzia e il riparo di contrada San Tommaso a Enna, finanziate con fondi europei su progetti della Regione Sicilia e realizzati in collaborazione con gli archeologi Filippo Iannì e Anna Barberi, cofondatori della società Arkeos. Da diversi anni inoltre Arkeos è anche fortemente impegnata nell’ambito dell’archeologia preventiva, con progetti realizzati per grandi committenti quali Terna, Enel, Anas, Snam, non solo in Sicilia ma in tutta la penisola italiana.
C: Le vostre indagini hanno condotto a uno studio capillare sugli insediamenti preistorici sparsi nel territorio. Cosa avete compreso sulle dinamiche del popolamento negli Erei in epoca preistorica?
E: Attraverso l’attività di scavo e incrociando i dati archeologici con quelli di tipo palinologico, ovvero sull’analisi dei pollini ottenuti dalle approfondite indagini condotte sui sedimenti del lago di Pergusa si è risalito al tipo di vegetazione presente nell’età preistorica e si è visto che nelle fasi più antiche – paleolitico e mesolitico – la vegetazione in questa zona era rigogliosissima e poche erano le tracce di frequentazione umana, una situazione determinata più per la mancanza di ricerche mirate e per la difficoltà di conservazione dei depositi di tali periodi, di norma rinvenuti in grotte carsiche, che per una reale assenza di popolamento.
La situazione cambia nel Neolitico, una lunga epoca caratterizzata dalla scoperta dell’agricoltura e dell’allevamento: in Sicilia compaiono i cereali e i legumi introdotti dall’Oriente e nell’allevamento ovini e suini. È questa la fase in cui compare la ceramica, il fossile-guida per eccellenza nella ricerca archeologica in quanto si conserva molto bene e può anche essere datata con una certa precisione diventando un indicatore cronologico fondamentale. Secondo Bernabò Brea il Neolitico inizia in Sicilia intorno al 5500 a.C. e anche a nel territorio ennese si ritrovano tracce di queste prime fasi, riconoscibili dalla presenza della cosiddetta Ceramica di Stentinello. A Calascibetta, nel famoso sito di Realmese, l’Orsi ritrovò diverse tracce del periodo. In una prima fase, comunque, sembra prevalere l’attività dell’allevamento, come si evince dai dati pollinici, che non riportano per questa fase evidenze di cereali coltivati. Inoltre nella sequenza di Pergusa sono evidenti le tracce di grandi incendi che fanno pensare che si procedesse a bruciare aree boschive per destinarle al pascolo degli animali. All’arrivo del Neolitico finale (V-IV millennio a.C.) le comunità cominciano a diventare più stanziali: oltre al rinvenimento delle prime sepolture, come quella messa in luce a Contrada Marcato a Valguarnera dove una tomba a fossa conserva insieme alle deposizioni umane anche un piccolo corredo di vasi e strumenti litici, diversi altri siti a Pergusa, Pietraperzia, Troina confermano l’esistenza di piccole comunità che sviluppano, insieme all’agricoltura e alla pastorizia, una crescente produzione artigianale utilizzando le materie prime per realizzare prodotti derivati (ceramiche, prodotti caseari, tessuti…).
Ma bisogna aspettare l’età del Rame finale e quella del Bronzo antico, alla fine del III millennio per osservare una vera e propria esplosione demografica, testimoniata da decine di insediamenti e dal rinvenimento di moltissima ceramica tipica delle culture di Malpasso, di S.Ippolito e di Castelluccio. In questo periodo l’area centrale della Sicilia, probabilmente molto florida e verde all’epoca, sembra prosperare: nascono villaggi con capanne, aree produttive e necropoli con tombe a grotticella. I motivi di questo sviluppo sembra dipendano ora anche dal fatto che le popolazioni locali iniziano adesso a sfruttare le numerose risorse minerarie presenti nel territorio, in primis zolfo e salgemma. Filippo Iannì ha approfondito questo tipo di studi ed è giunto alla conclusione che i principali insediamenti della zona sorgevano a non più di 700-800 metri di distanza da un’area di sfruttamento minerario. Tracce di zolfo sono presenti nelle fasi dell’età del Rame del sito di Case Bastione a Villarosa; ora stiamo cercando di comprendere, grazie a studi di tipo archeobotanico e chimico-fisico condotti in collaborazione con Claudia Speciale e l’Università di Montpellier, come questo venisse utilizzato e se in qualche modo fosse già presente a quell’epoca una forma di scambio di queste risorse con diverse aree del Mediterraneo, come già è testimoniato per diversi siti dell’agrigentino in cui lo zolfo era alla base di una fiorente economia produttiva e di scambio. Nel sito di Tornambè (Pietraperzia) abbiamo infatti ritrovato, all’interno di una sepoltura, resti di ceramiche egee che potrebbero giustificare l’ipotesi di scambi con il Mediterraneo orientale, cosa che finora non era nota per questa parte interna della Sicilia. Lo zolfo aveva molti usi, di purificazione nel corso delle cerimonie cultuali, ma anche in farmacia e nella concia delle pelli. Il torrente Torcicoda in questo senso avrebbe rappresentato una via di comunicazione molto importante, verso l’Imera meridionale e quindi verso il mare.
Alla metà dell’età del Bronzo si presenta invece una situazione completamente diversa: i siti diminuiscono improvvisamente, si verifica un netto calo demografico. I motivi sono probabilmente ambientali e climatici, dovuti a un innalzamento delle temperature e una fase di siccità che potrebbe aver provocato dei cambiamenti sociali ed economici condizionati anche dai nuovi contatti tra la Sicilia e i Micenei. Si torna probabilmente alla pastorizia e si abbandonano molte delle attività precedenti. Dopo un periodo di quattro o cinque secoli di crisi, si giunge infine a una nuova fase di sviluppo alla fine dell’età del Bronzo e nell’età del Ferro, caratterizzato un po’ in tutta l’Italia meridionale da movimenti di popolazioni, nuove invasioni – nel centro della Sicilia si stabiliscono le popolazioni sicule – e ripopolamento delle aree interne. Si nota però, alle soglie dell’età arcaica, un arroccamento dei nuovi villaggi che si raggruppano in pochi centri sopraelevati – Cittadella a Morgantina, forse il pianoro di Enna, Realmese a Calascibetta, Cozzo Matrice, Capodarso e Sabucina – che evidenziano una necessità di difesa. Da cosa? Probabilmente dai Greci che cominciano a colonizzare le coste e a interessarsi all’entroterra.
C: A questo punto, in età arcaica e classica la concentrazione e lo sviluppo degli insediamenti cambia completamente. La nascita e lo sviluppo delle colonie greche modifica il profilo politico-culturale dei centri dell’interno e ne emergono alcuni a danno di altri che sembrano scomparire. Sul pianoro di Enna, ad esempio, si verifica una fase di sviluppo di tipo urbano. Che tipo di indagini avete svolto in questo senso e con quali esiti?
E: Sì, a questo punto, per indagare il processo di evoluzione degli insediamenti in età arcaica e classica abbiamo dovuto utilizzare un approccio diverso, utilizzando gli strumenti dell’archeologia urbana, affidandoci agli studi precedenti e iniziando a scavare in alcuni siti urbani, in special modo nell’area del Castello di Lombardia a Enna, dove le fonti ci dicono che i Greci avevano fondato una colonia già nel VII secolo a.C. In realtà non abbiamo trovato tracce di abitazione del sito in una fase così antica, ma le prime tracce compaiono nel V sec. a.C. quando contemporaneamente vengono abbandonati gli altri insediamenti: sembra che le popolazioni si spostino in massa verso pochi centri urbani – Enna, Morgantina, Sabucina.
I nostri scavi si sono concentrati nella valletta di Santa Ninfa che sorge tra il Castello di Lombardia e la Rocca di Cerere, ovvero la prima area di insediamento nella città. Lì l’Orsi aveva individuato resti di necropoli di età greca ed ellenistica e di altre strutture coeve e ipotizzato che la città di epoca greca si estendesse su parte del pianoro sommitale, mentre le necropoli sorgevano sulle pendici e oggi in alcuni punti sono ancora visibili nella forma delle famose “grotte” che si incontrano salendo verso Enna alta.
Dallo scavo di Santa Ninfa, realizzato in collaborazione con la Soprintendenza di Enna e con la dott.ssa Rossella Nicoletti, è emerso che l’area ha subito negli ultimi decenni diversi rimaneggiamenti e quella che era una vera e propria valle che separava la Rocca di Cerere dal castello è stata colmata da tonnellate di detriti e di inerti che l’hanno livellata e ne hanno trasformato l’aspetto, che oggi risulta molto diverso da come ce lo descriveva Cicerone, cioè come un vero locus amoenus molto verde, con fonti perenni, ipogei, santuari. In attesa che venga realizzato un progetto di pulizia e di nuove ricerche archeologiche da noi promosso, siamo però riusciti a riportare alla luce un’area sacra di età ellenistica, caratterizzata da un ambiente in cui si svolgevano banchetti sacri legati ai riti in onore della dea Demetra e da una parete scavata nella roccia con nicchie votive all’interno della quale dovevano essere dipinte immagini sacre, una tipologia di santuario rupestre che ritroviamo in altri luoghi, ad esempio nei cosiddetti “Santoni” di Palazzolo Acreide. Il santuario fu poi riutilizzato in età cristiana, come ci raccontano alcune croci incise sulle nicchie e i resti di una chiesetta di età bizantina (VII-VIII secolo d.C.). Da quanto riscontrato, si può ritenere che in questa zona si collocasse uno degli ingressi principali alla città dall’epoca classica a quella medievale. Solo in epoca normanna verrà abbandonata come luogo di culto, assumendo la funzione di quartiere artigianale, mentre la porta della città viene spostata un po’ più a sud e la città comincia ad assumere un’altra fisionomia. Naturalmente le ricerche non sono ancora giunte a conclusione perché sono ancora molte le domande a cui dare risposta, ma solo proseguendo con i progetti di ricerca e di riqualificazione dell’area potremo scoprire di più sul nostro passato e magari dare riscontro a ciò che le fonti antiche ci raccontano.
C: Quali conseguenze potrebbero avere gli esiti delle vostre ricerche ai fini della valorizzazione del territorio ennese?
E: Purtroppo il territorio ennese vive una condizione contraddittoria. Da una parte viviamo in una forma di sottosviluppo che ha impedito per molto tempo di fare ricerca, tutela e valorizzazione, anche da parte delle istituzioni preposte. Ma dall’altra parte questo abbandono ha contribuito a conservare l’esistente, che a questo punto aspetta solo di essere riportato alla luce. Purtroppo, nonostante i numerosi proclami della politica a favore dei beni culturali, sono in alcuni casi – e per fortuna ci sono stati – c’è stata una vera collaborazione con le istituzioni locali. Potrebbe sembrare che il problema sia principalmente economico, ma così non è, spesso il problema è la volontà politica e la programmazione: in molti casi i fondi vengono spesi in progetti davvero poco significativi dal punto di vista dei contenuti e che non arricchiscono le conoscenze dei non addetti ai lavori. È opportuno invece che possano continuare le ricerche e che si possa far conoscere in maniera seria quello che Enna e il suo territorio hanno rappresentato nell’ambito della storia della Sicilia. Non dimentichiamo, ad esempio, che la città fu per alcuni decenni capitale del regno di Sicilia in poca bizantina. Non possiamo permetterci di sprecare questo patrimonio e il frutto delle ricerche di tanti studiosi. Questo patrimonio deve diventare patrimonio della comunità; gli archeologi devono fare la loro parte pubblicando e condividendo i risultati delle loro ricerche, il che purtroppo avviene ancora troppo sporadicamente, ma a livello politico è necessario proporre e portare avanti progetti di ricerca e di archeologia pubblica. I progetti e le competenze per realizzarli in realtà ci sono, ma spesso si interrompono al passaggio tra un’amministrazione e un’altra. È necessario continuare a pensare a uno sviluppo possibile di questo territorio per molti aspetti depresso passando anche per il patrimonio culturale, non accontentandosi di piccoli risultati oggi, ma programmando seriamente per il domani. E l’archeologo in questo senso, anche se non svolge attività politica in senso stretto, ha una grande responsabilità politica nei confronti della comunità. Perché come affermava lo storico Peter Brown, studioso della tarda antichità, “Lo studio del passato inizia dai problemi del presente”.
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