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- Categoria: Società e Costume
Società e Costume - Lo strano caso delle parole rubate
La resilienza tra Bartezzaghi e Sciascia.
di Giuseppe Margiotta
Abituati come siete a leggere stranezze in questa rubrica, vi starete chiedendo a quale libro o altro arcano si riferisca questa volta il titolo.
Non siamo stati mai così scontati da pensare a Lo strano caso del dott. Jekyll e il signor Hide, anche se la suggestione di Stevenson rimane immutata nei decenni. Nemmeno il fascino (con pari opportunità) di Cate Blanchett e Brad Pitt ci avrebbe convinti a optare per Benjamin Button, anche perché in quel titolo sarebbe stato un caso “curioso” e non “strano”.
Semmai, siamo stati tentati per un attimo da quel delizioso romanzo che è Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon. Ma alla fine ha prevalso il buon senso e la consapevolezza che proseguendo su questa perigliosa china, strano sarebbe stato l’autore e non il titolo!
Lo strano caso delle parole rubate non è dunque ripreso da un’opera esistente ma è solo una provocazione o, ad essere più precisi una denunzia.
Tra le tante parole abusate in questo periodo di pandemia, una ci è vieppiù fastidiosa, e vi spiegheremo perché.
LA PAROLA RESILIENZA
Si tratta di un vero e proprio evento linguistico e lessicale, che ha colpito il nostro paese da meno di un decennio, ma che ha conosciuto la sua esplosione soprattutto in tempi di pandemia.
Ora, capiamoci bene, non stiamo sostenendo che il fenomeno sia tutto italiano, tutt’altro, visto che la sua espansione avviene su scala globale. Il tema è che, come sempre, da noi assume connotazioni sue proprie.
Come molte mode o manie italiche, il termine trae origine da un adattamento o meglio, una translitterazione, direttamente dall’inglese, benché le sue origini siano come sempre latine. Probabilmente è il suono delle parole, di questa parola, che ha contagiato giornalisti, economisti, influencer, fino a farne esplodere un uso più che disinvolto.
Per evitare di apparire inutilmente didascalici, non intendiamo addentrarci nell’etimologia del termine, che certo rivelerebbe spunti e sorprese assai interessanti. Ci basterà osservare l’uso smodato che si fa di questo sostantivo e dell’aggettivo che ne discende.
Intanto perché noi ingegneri ci sentiamo in qualche modo defraudati?
Perché per noi ingegneri, la resilienza è una proprietà meccanica. Punto.
Settori e discipline fanno a gara nel descrivere o auspicare come resilienti proposte e programmi, ma da sempre questo termine è stato proprio dell’ambito tecnico, della Fisica, dell’Ingegneria e più ancora dell’Ingegneria meccanica e dei materiali.
Fino a metà del ‘900 la parola “resilienza” non era addirittura presente nei dizionari della lingua italiana, dove ha cominciato ad essere inserita solo negli ultimi decenni del secolo scorso, esclusivamente nell’accezione tecnologica.
Per farla breve, sicuramente prima del 2010 o giù di lì, in Italia il termine resilienza era usato unicamente in ambito tecnico, per designare una specifica caratteristica dei materiali metallici, misurabile con una prova regolata da norme ben precise.
LA SOCIETÀ NON È UN METALLO
Situazione opposta nel mondo anglosassone, dove il termine resilience ha sempre avuto un significato ampio, che però non è stato adottato per designare quella che in Italia è conosciuta come prova di resilienza, e che in letteratura tecnica inglese viene chiamata impact toughness o impact strength.
Le voci resilience, resiliency, resilient sono derivati dal verbo to resile nel significato di ritrarsi, riattaccare, recuperare forma e posizione elasticamente, ritrattare. Lo usava già Sir Francis Bacon (da noi conosciuto come Francesco Bacone), che agli inizi del 1600 descriveva la capacità dell’eco di “tornare indietro” come resilience. Più o meno nello stesso periodo usava la stessa parola, intesa come rimbalzo, lo stesso Cartesio (come era conosciuto per lo stesso identico incomprensibile vezzo italico René Descartes). Entrambi con riferimento alla radice latina.
Per fortuna in italiano non esiste il verbo corrispondente al sostantivo e all’aggettivo, che potrebbe essere resiliare, resiliere, resilire, ed è già un passo avanti. Ma non illudiamoci, l’abbiamo già fatto con il verbo “attenzionare” e tanti altri verbi denominali (ottenuti aggiungendo a un nome la desinenza “are”), perciò vediamo di non farci tentare!
Psicologia, pedagogia, sociologia, finanza, infrastrutture, ecologia, organizzazione sono tra gli ambiti in cui il termine è ormai diffuso.
In psicologia, la resilienza è un concetto che indica la capacità di fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà.
Dal significato di tipo psicologico il concetto si è diffuso anche in quello economico. Pertanto, un'organizzazione (impresa, azienda e contesti analoghi) è resiliente quando è in grado di affrontare i rischi, cogliendo opportunità anche nelle situazioni negative.
Si parla pure di “Comunità resilienti”, pertanto, la resilienza è anche un concetto sociologico oltre che psicologico.
In ecologia, resiliente è una comunità o un sistema ambientale capace di tornare velocemente al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta a una perturbazione.
È chiaro che non vogliamo ottusamente opporci a quella che Stefano Bartezzaghi (figlio e oggi padre dei più sofisticati cruciverba) definisce “parola-chiave di un’epoca”. Vogliamo solo rifletterci sopra.
MA DAVVERO LA RESILIENZA È SUFFICIENTE?
In questo triste periodo pandemico, in cui è in crisi l’intero sistema umano come lo abbiamo conosciuto finora, sembra che questa parola assuma un valore simbolico: lo spirito di resilienza rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, forse addirittura di ironia. Ma tutto questo basta?
Secondo noi, e non solo, in questa logica, in questa visione apparentemente ottimistica, si cela un inganno gravissimo: il mondo, e nel nostro piccolo l’Italia, erano davvero buoni prima della tragedia del Covid? È sufficiente tornare al soddisfacente equilibrio o squilibrio antecedente alla crisi per risolvere i nostri problemi?
Sembra quasi che la nostra situazione economica, energetica, burocratica e amministrativa, o la nostra situazione ambientale precedenti la crisi configurassero il migliore dei mondi possibili. Rimanendo nel campo della nostra professione e del nostro Paese, abbiamo detto e gridato più volte le cose che non vanno nel sistema burocratico, nel mondo degli appalti, dell’urbanistica, degli investimenti e delle infrastrutture; abbiamo chiesto interventi strutturali che ci aiutassero a risollevarci da una crisi che già era palpabile prima del Covid.
E se volessimo spingerci fuori dai nostri orizzonti prossimi, verso i grandi sistemi planetari, che non ci sono affatto estranei, tutto questo sarebbe ancora più drammatico.
Nel 1986, davanti al Congresso americano, Kenneth Boulding, economista, pacifista e poeta inglese naturalizzato americano, espresse con un aforisma estremamente efficace un concetto già anticipato nel 1972 dal Club di Roma, e per esso dagli studi del MIT di Boston: “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all'infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista”.
Quelle previsioni, frettolosamente archiviate come apocalittiche e inattendibili, si stanno rivelando ogni giorno di più sovrapponibili alle osservazioni scientifiche.
Tornare al presupposto equilibrio antecedente alla pandemia non sembra proprio un buon risultato, come dettato dall’ONUI con Agenda 2030 ed in Italia da AISV, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile.
DA BARTEZZAGHI A SCIASCIA
Se siete arrivati fin qui, e non avete fatto come chi, vedendo scritto “8 marzo” su una mail, ha pensato a degli ovvi e vagamente oscurantisti auguri alle donne, senza nemmeno leggere una riga, allora vi meritate una citazione in dialetto.
“Càlati juncu ca passa la china” è un proverbio siciliano che può tradursi forse ingannevolmente in: piegati giunco ché passa la piena (del fiume).
È apparentemente una metafora nemmeno troppo ardita del concetto di resilienza. Ma nel senso più profondo, dettato dalla nostra cultura isolana spesso dolorosamente asservita, questo proverbio ha un significato meno ottimistico, che potremmo sintetizzare così: accettare di malgrado o di buongrado una situazione a cui non ci si può opporre. In una parola, piegarsi per non rompersi.
Leonardo Sciascia, in Nero su nero, ne parla come un “modo di essere su cui le alluvioni della storia passano come sul proverbiale giunco”.
Meditate gente meditate.
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