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Letteratura Siciliana e Grande Emigrazione: Un'Analisi del Fenomeno Attraverso Verga, Capuana, Pirandello e Maria Messina
Dopo la sconfitta dei Fasci, che comportò il ripristino dei vecchi meccanismi socioeconomici ricolmi di residui feudali, l’emigrazione siciliana verso le Americhe ebbe una vertiginosa impennata. Dal 1901 al 1914, un milione di isolani (su una popolazione di 3,5 milioni di abitanti) attraversò l’Atlantico; il 77% scelse gli Stati Uniti e il 16% l’Argentina (“l’America bona” e “l’America tinta”, come si dirà più tardi). Non si trattò tanto di eccedenza demografica (la “valvola di sfogo”) quanto di “protesta muta”, di “sciopero bianco” contro la condizione cui erano relegate le classi subalterne.
Come reagirono gli scrittori siciliani che si trovarono confrontati a questo fenomeno biblico? Ce ne dà risposta un prezioso libro di Chiara Mazzucchelli, valguarnerese che insegna all’Università di Orlando, in Florida: “Bastimenti di Inchiostro. La grande emigrazione nella letteratura siciliana (1876-1924)” da poco pubblicato dalla Kalòs di Palermo. Un libro di non molte pagine ma dalla poderosa bibliografia, un succoso ed agile condensato di specifico sapere, per essere chiari. L’approccio letterario risulta di grande interesse poiché ci permette di considerare l’aspetto umano del fenomeno migratorio che, ovviamente, non è costituito soltanto dai dati abitualmente forniti dagli storici e dagli economisti.
Leonardo Sciascia constatava con amarezza che la cultura italiana aveva trascurato l’emigrazione e, citando Gramsci, retoricamente si chiedeva perché mai avrebbe dovuto occuparsi dei lavoratori quando erano all’estero, se non lo faceva quando erano in Italia. Un giudizio che va preso con le molle. La Mazzucchelli, infatti, pur non negando questa reticenza - che riflette un distacco tra la cultura ufficiale e le esperienze concrete delle masse - ci fornisce un’ampia documentazione di una narrativa isolana che si è occupata di emigrazione. Gli autori maggiormente analizzati sono: Verga, Capuana, Pirandello e Maria Messina.
Siamo lontani dal mea culpa di De Amicis che si sente responsabile della “fuga dell’esercito infinito della miseria”. Al di là di una diffuso sentimento compassionevole che all’autrice appare venato di paternalismo, la prospettiva predominante di questa narrativa è, infatti, quella del conservatorismo antiemigrazionista. Sono pagine, sostiene la Mazzucchelli, che “promuovono un naturale attaccamento alla casa, al nido, allo scoglio, incoraggiando il mantenimento della civiltà contadina che caratterizzava l’isola. L’emancipazione da questa tradizione era percepita come una profonda minaccia al profilo antico e immutabile della Sicilia”.
Il punto di vista di Verga sull’emigrazione emerge con grande evidenza dall’introduzione dei Malavoglia, libro che si propone di studiare “quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio”. Si tratta, in buona sostanza, di quel meridionalismo tradizionalista che propugna l’accettazione del proprio destino e dunque dell’esistente.
Secondo l’autrice, l’etichetta di “scolara di Verga” con la quale venne designata Maria Messina nasce dalla misoginia che pervade la letteratura dell’epoca, incapace di ascoltare con la dovuta attenzione le voci delle numerose scrittici siciliane coeve. La palermitana meriterebbe ben altri riconoscimenti. A lei si devono alcune novelle che descrivono gli effetti crudeli che la “spartenza” produce sulle donne rimaste, protagoniste anch’esse, loro malgrado, della Grande Emigrazione. La diaspora, per le ragazze, consiste innanzitutto nel fatto che “i meglio giovani del paese andavano a lavorare in quella terra incantata che se li tirava come una mala femmina”. E in seguito, il dolore, la disperazione e l’inevitabile dissoluzione dei legami affettivi che connotano l’antiemigrazionismo di Maria Messina.
Si deve a Luigi Capuana il solo romanzo che affronti il tema in questione: Gli “Americani” di Ràbbato, che venne pubblicato nel 1912, un anno che appartiene alla fase culminante del fenomeno. Una narrazione nella quale emigrazione e immigrazione si intersecano sullo sfondo di un paese immaginario che assomiglia molto alla natia Mineo. Il giudizio globale non è negativo: l’emigrazione può aprire le porte all’arricchimento economico e culturale.
Per Pirandello, invece, l’emigrazione offre nuove occasioni per riflettere sulla dimensione esistenziale: il verismo appartiene ormai al passato. L’esodo è, comunque, un fenomeno inevitabile: le lettere e le informazioni dei parenti e degli amici già emigrati mettono in moto un meccanismo che fa pensare ai pulcini che seguono inconsapevolmente la chioccia. Un meccanismo che attrae, ma che non offre possibilità di riscatto.
Enzo Barnabà
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