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“L'uomo e il cavallo” di Gesualdo Prestipino
Il 27 giugno si è inaugurato il Palazzo della cultura con la mostra “Il mito e il sacro” e, nell'atrio, l'istallazione permanente di un'opera del Maestro Gesualdo Prestipino. Ed è una bella notizia che rende onore a uno degli artisti storici della città la cui produzione, iniziata negli anni ’50, si è svolta tutta e continua a svolgersi all’insegna della serietà umana e professionale, di una operatività sapiente spesa senza risparmio, di una ricerca mai interrotta del significato profondo delle cose e dell’arte. L'opera esposta è “L'uomo e il cavallo”. Un grande gesso, originale del bronzo collocato nella Piazza della Chiesa di Sant'Ignazio a Regalbuto, per la quale il maestro ha realizzato anche il magnifico portale.
Riferimento è certo la statua equestre. Ma quanto lontana. Non c’è la gloria retorica dell’animale rampante, né quella del cavaliere in solenne equilibrio su di esso. C’è un’azione, che si svolge sotto i nostri occhi e stringe in un unico istante vitale, cavallo e cavaliere. Alla pari. I corpi si fanno movimento e si fondono. La compenetrazione raggiunta ha precedenti solo nella simultaneità del futurismo. Si pensa immediatamente, pur nell’ovvia differenza a Il Cavaliere Rosso di Carrà. La groppa dell'animale si impunta, nella sua massa possente da cavallo arabo, accentuata dalla fascia orizzontale. Citazione classica, utile ad enunciare il tema. La coda, che accenna a sinistra, prelude al movimento del cavaliere che appare infatti tutto proteso nello sforzo di tirare l’animale in quella direzione. La forma si snoda a fasce circolari, in un movimento a spirale verso l’alto. La testa del cavaliere conclude a sinistra, in opposizione al muso del cavallo che si erge appuntito e si allunga nello sforzo di resistere – preso tra il volo e la radice.
Girando intorno al gesso, è lo stesso dinamismo interno della scultura a imporre il senso antiorario ai nostri passi. E subito l’istante appena percepito comincia a dilatarsi nella complessità di un racconto dalle molte facce. Lasciata la visuale posteriore, c’è un attimo, nella dialettica delle forze, in cui l’uomo appare come diminuito e il cavallo più forte. Il muso dell’animale, ancora più spasmodico, fa una piccola curva divergente. La bocca si apre. Si intravede l’urlo, mentre si impunta ribelle sulle zampe posteriori. Ma c’è qualcosa intanto, che sporge di lato e suggerisce il ginocchio dell’uomo. La sua gamba, che blocca di contro e genera la torsione. Il contrasto tra le due volontà nuovamente uguali, tra spinta e resistenza, tocca l’acme. Mentre la vischiosità del terrestre radica entrambi, uomo e cavallo, che non riescono a staccarsi dal suolo. Così – mentre le zampe anteriori perdono angoli e si fanno morbide e rotonde anziché impennare – solo l’urlo si slancia e vola. Solo l’idea, raccontata dalla diagonale unica che unisce la gamba dell’uomo al muso del cavallo.
Dopo l’immane tensione, le due creature, a guardarle da davanti, si immedesimano sfiorando il mito del centauro, il sogno di un’anima sola per tutto il vivente. E una pausa le consola dall’altro lato, prima di ritornare al punto di partenza. Segnata dal riposo momentaneo della bellezza e della poesia. Come nel Ratto di Proserpina. Ed è da una parte la plasticità della testa del cavallo, il dettaglio vibrante della criniera e l’anello perfetto della coda – dall’altra l’impressione di uno sguardo, di un abbraccio, più che uno strappo, da parte del cavaliere. Ma è un attimo. Le fasce si spezzano quasi scomponendosi nei pezzi di un macchinario, nella forza cieca di un ingranaggio. Il nostro occhio alla fine si posa sul cerchio statico, schiacciato e obliquo alla base. E tutto ricomincia, di nuovo preso tra l’atterramento e il volo.
Cinzia Farina
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